Il ghetto dell’accoglienza

 

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Da un anno a questa parte,
portiamo avanti un progetto di presenza sul territorio di Chiasso,
concentrandoci sulla questione dei migranti. Infatti nella cittadina di confine
è presente il centro di registrazione dei richiedenti di asilo (il quinto della
Svizzera), crocevia del passaggio di uomini e donne che varcano il confine
elvetico in cerca di una realtà diversa dai paesi di provenienza. Ad
accoglierli non ci sono rose e fiori, come per chi giunge alle nostre latitudini
con capitali da investire o proposte economiche, bens
ì umiliazioni e violenza per mano delle guardie di
confine e della securitas. Quest’ultima è una società di sicurezza privata
utilizzata dalle classi del potere; tant’é 
vero che nel suo “curriculum” spiccano: trasferimenti penitenziari di
detenuti, operazioni di sicurezza e sorveglianza durante il Wef (World Economic
Forum)  a Davos e per ultimo, ma non da
meno, casi di infiltrazione e spionaggio, come per esempio quelli operati al
soldo della multinazionale Nestlé nel movimento Attac. Purtroppo le torture che
i migranti subiscono da parte delle “forze dell’ordine” non sono nostri slogan
o affermazioni astratte, ma trovano triste conferma nelle testimonianze che
abbiamo raccolto durante i presidi a Chiasso. Molti ragazzi ci hanno mostrato i
veri segni dell’accoglienza: lividi, volti tumefatti, morsi di cani aizzati
dalle guardie di confine e racconti di altre torture dipingono una realtà che
ai politici e alla polizia convenga resti nell’ombra. Per questo, in seguito ad
alcune nostre denunce pubbliche della situazione repressiva, sono seguite
immediatamente dichiarazioni a mezzo stampa ad opera dei vari rappresentanti
istituzionali e della polizia, che palesemente e senza nostro stupore,
rinnegavano tutto autoproclamandosi portabandiera della solidarietà umanitaria
e altre cazzate, con l’inutile intento di lavare dal sangue delle torture i
loro brillante distintivi, divise e codici della loro democrazia. Anche nel
resto del Ticino non si pensi che la situazione sia più tranquilla; anzi, la
polizia comunale di Lugano ha la fama di picchiatori e torturatori nelle realtà
di strada. Esistono due stanzini dove i torturatori in divisa hanno l’abitudine
di portare i migranti che fermano: uno è sotto il municipio di Lugano e l’altro
è situato in un sotterraneo della stazione adiacente al negozio di alimentari.
Le pagine dei giornali riportano solo gli eventi più eclatanti, come i
recenti  casi di due magrebini, il primo
“caduto” in circostanze mai chiarite dal sesto piano dell’autosilo Motta di
Lugano, il secondo si trova in fin di vita per essere fuggito durante un’ispezione
sul lavoro  in quanto irregolare. In
realtà molti altri episodi vengono deliberatamente omessi dall’informazione di
regime per non infangare l’onore e il rispetto di cui godono gli sbirri. Queste
loro mosse si incastrano perfettamente nel puzzle mediatico di
criminalizzazione dei migranti. Una criminalizzazione troppo semplice, composta
di luoghi comuni (spacciano, rubano, ecc..) che trovano nella quotidianità
anche dei pretesti  per essere avvalorati
(come è successo a Besso), ma che non va a monte del problema e punta il dito
sull’ultimo anello della catena. Per esempio, il consumo di cocaina, principale
merce dello spaccio di strada, è il risultato 
del bisogno di riuscire a sostenere i ritmi frenetici che la società
impone (lavorare, produrre, consumare): ritmi che non si riesce sopportare e,
con la paura di esclusione sociale e licenziamento, si colmano con la “polvere
magica”; oppure semplicemente additando l’immigrato, che viene a sua volta
sfruttato, di occupare posti di lavoro “riservato agli autoctoni”, senza
considerare che il problema è la stessa macchina lavorativa guidata dai
padroni. Troppo facilmente si classifica come criminale  chi varca i confini, dimenticandoci di quando
il capitalismo occidentale invade le loro terre,  saccheggiandole e devastandole, per sostenere
lo standard economico dei paesi industrializzati. Esempi  possono essere: il  neocolonialismo economico di multinazionali
che in Africa sfruttano le risorse locali  o i rapporti della Svizzera con la Turchia, che in cambio di
favoritismi sugli appalti per la costruzione di dighe, non esita a consegnare
prigionieri politici del PKK alla polizia turca.

Noi siamo decisi a continuare
il lavoro di controinformazione riguardo alle violenze della polizia, ma è
necessaria anche una risposta pratica che vada oltre la denuncia teorica. La
polizia non è una entità intoccabile; oltre il distintivo e le divise dietro a
cui si nascondo, ponendosi come garanti della sicurezza, ci sono solo
torturatori e servi del potere.

La nostra risposta si deve far
sentire agendo nel quotidiano. Colpo su colpo.

Se non tu, chi? Se non ora,
quando?

 

selvatica.noblogs.org       selvatici@canaglie.org   

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